Il “caso Schillaci”: vertici, baratri e futuro della ricerca

[NB: le immagini che compaiono nel testo, come quanto segue spiega più dettagliatamente, NON si riferiscono al “caso Schillaci” ma contribuiscono a illustrare il più ampio ragionamento sulle ricadute che le modalità di valutazione possono avere sulla “produzione accademica”]

Abbiamo seguito con attenzione la vicenda rivelata in prima istanza dal Manifesto, e poi ripresa anche da altri organi di stampa non solo nazionali, relativa al ministro Schillaci e ad alcune pubblicazioni cui a vario titolo ha partecipato, che presenterebbero possibili irregolarità (sarebbero circa una decina in 4 anni, secondo Il Manifesto). Non ne avevamo però ancora scritto, e vogliamo farlo ora. Ha senso dopo tanti giorni? Noi crediamo di si. Potremmo scrivervi che la lentezza, nel tempo delle corse, è di per sé un atto rivoluzionario, ma non è questo il motivo. Abbiamo aspettato perché del caso Schillaci a noi interessava anche la reazione dell’Accademia, e abbiamo voluto “analizzarla”, anche sforzandoci di esplorare lo spazio esterno alla nostra “bolla social”. Il quadro che ne è emerso è purtroppo sconfortante. Pochissime voci (sempre le stesse) nell’Accademia si sono levate per commentare il caso; soprattutto, pochissime hanno provato ad analizzare l’humus che, generalmente, alimenta scorrettezze e comportamenti non etici nelle pubblicazioni scientifiche. Per il resto, un grande silenzio. Ma non è questo che ci ha sconfortati: anche in passato molti accademici non avevano brillato per impavidità, evitando di uscire allo scoperto contro il potente di turno inciampato in qualche disavventura. Non è stata l’assenza di roboanti j’accuse ad indignarci: a questo eravamo preparati. Ciò che ci ha lasciati sgomenti sono state le “chiacchiere al bar” che non di rado si colgono: “eh, ma fanno tutti così…”; “sì, ma il corresponding non può essere responsabile di tutto”; “vabbè’, ma ancora ti scandalizzi, non lo sai che il nome del capo va inserito sempre e comunque, a medicina poi ….”. Queste frasi, dette da colleghi giovani e meno giovani, purtroppo confermano, ancora una volta, che l’orizzonte di una produzione di lavori ipertrofica (costi quel che costi, publish or perish) appare a molte e molti l’ineludibile destino dell’Accademia. 

Non vogliamo sfuggire alla domanda: è giusto o no che il Ministro si dimetta? A scanso di equivoci, scriviamo con chiarezza e serenità che, pur considerando le dimissioni una scelta individuale, pensiamo che un passo indietro del Ministro in questo momento sarebbe opportuno, come del resto dovrebbe essere ineludibile in una comunità accademica “sana” anche avviare una verifica tra pari di ciò che è avvenuto, con le eventuali conseguenti sanzioni. Dimissioni sia a sua tutela, poiché così potrebbe più serenamente argomentare le sue ragioni, sia per gli Uffici che ricopre (politico pro tempore e accademico), che sarebbero meno esposti all’imbarazzo. Del resto, fuori dall’Italia, in casi analoghi le dimissioni non solo sono state richieste ma prontamente ottenute, per non screditare le Istituzioni. Ma non è questo il punto che ci interessa di più. Se di manipolazione di dati si trattasse, e se pure accettassimo la posizione che l’autore corrispondente non avrebbe potuto riconoscere l’errore, la domanda che riterremmo interessante sarebbe quella sulle ragioni che avrebbero spinto un/a (giovane?) ricercatore/trice a commettere la (ipotetica) frode. Quanta pressione a produrre lavori il sistema esercita, soprattutto sui giovani che cercano di emergere? Certo, c’è chi dalla pressione si fa trasportare (e magari da qualche parte arriva), e chi, a prescindere da tutto, non si piega a comportamenti non etici, e magari resta al palo. Le azioni, se risultassero confermate, sarebbero ingiustificabili, in questo come in casi analoghi, ma crediamo sia ugualmente urgente e vitale per la Scienza porsi questa domanda. 

Astraendo dal caso in discussione, se l’Accademia non riesce ad indignarsi (e neanche a perseguire) chi candidamente vende e compra nomi negli articoli, vuol dire che siamo pericolosamente vicini ad un punto di non ritorno, oltrepassato il quale si rischia di minare irrimediabilmente la credibilità del sapere scientifico, con immenso e forse irreparabile danno anche per la stragrande maggioranza di persone che fanno ricerca in modo onesto, pubblicando non per rincorrere numeretti ma perché ritengono di avere qualcosa di significativo da condividere con la comunità scientifica. A chi dovesse pensare ad una posizione eccessiva, da “duri e puri” della ricerca, suggeriamo di dare un’occhiata a ”servizi”  come questi (si veda anche le immagi qui riportate, che sono screenshots del 25 settembre 2023), dove per qualche centinaio di dollari si può perfino comprare l’inserimento in corsa tra gli autori di un articolo già approvato. Se da un lato nessuno di noi, come certamente il 99% delle ricercatrici e dei ricercatori, ricorrerebbe mai ad un tale espediente utile a far carriera e arrivare rapidamente ai vertici, dall’altro dobbiamo chiederci: davvero ci stupisce? Con i meccanismi di valutazione vigenti, si potrebbe dire: “è il mercato, baby”!  I parametri ANVUR, con la loro retorica di un sistema quantitativo totalmente cieco, stanno incentivando esponenzialmente meccanismi ad hoc come questi, e come le “reti di scambio citazionale”, azzerando l’etica scientifica e corrompendo in modo spesso irreversibile le nuove generazioni di ricercatrici e ricercatori.

Screenshot del sito indicato (25 settembre 2023, ore 15.45)
Il “prezzario” in base alle posizioni (25 settembre 2023, ore 15.50)

Anche immaginando di riuscire ad evitare episodi fraudolenti, o anche ammettendo che questi siano (ancora) marginali, siamo certi che tutti i meccanismi (e sono tanti!!!) che spingono verso un’enorme – quanto poco sensata – produzione di lavori siano estremamente pericolosi. La banca dati Google Scholar, specializzata in lavori accademici, ha censito 6.5 milioni di lavori pubblicati nel 2022; erano 4.2 milioni il 20211. Quanto è diventato difficile oggi, e quanto sarà difficile domani “scovare” lavori spartiacque, qualche goccia di pregio in mezzo a questa alluvione? E non possiamo certo evocare gli indici bibliometrici come soluzione, poiché essi sono in realtà tra i maggiori colpevoli di questa vera e propria crisi della ricerca scientifica. Siamo sicuri che la logica della competizione, la lotta furibonda per l’eccellenza che spinge tanti colleghi a cercare di superare il collega nella classifica degli indicatori, sia il metodo migliore per organizzare la ricerca scientifica? Non sarebbe meglio avere criteri valutativi orientati alla valorizzazione della comunità e delle diversità di competenze, che stimolino la collaborazione e la produzione di qualità, invece che la competizione individuale e la quantità? Ma ancora, eventi come questo mostrano quanto la strategia del conteggio sia carente dalle sue fondamenta. Come si può attribuire del “merito” per pubblicazioni per le quali parte degli autori potrebbero non aver mai partecipato alle attività di ricerca che vengono descritte? Il meccanismo stesso di valutazione con indicatori porta in sé le cause prime del proprio fallimento. Il “caso Schillaci”, a prescindere dal suo esito formale, è l’occasione per evidenziare una volta di più l’urgenza di un radicale cambio di rotta e di strategia.

Il prof. Schillaci deciderà, in coscienza, cosa fare del suo incarico e della sua posizione accademica. Del resto, se egli decidesse di far finta di nulla, sarebbe soltanto l’ultimo in ordine di tempo di una serie di docenti italiani che si sono regolati nello stesso modo nel silenzio dell’Accademia, giovandosi – sarà un caso? – della mancanza di apposite norme che sanciscano civilmente e penalmente la frode scientifica in Italia. Basta infatti cercare qualche nome italiano nei blog specializzati in integrità e cattiva condotta scientifica (ad esempio: https://forbetterscience.com/) oppure spulciare nelle cronache nazionali anche recenti (ad esempio: https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/11/28/ricerche-mediche-aggiustate-pero-la-scienza-tace/5583974/), per rendersi conto di quanto si stia degradando l’etica della ricerca scientifica e dell’accademia nel nostro paese. 

A noi resta l’onere di decidere se affrontare oppure eludere la scomodissima domanda: come immaginiamo e come vogliamo che sia il futuro della Scienza e della Conoscenza?