Leggendo quanto scrive Simonetta Fiori su «Repubblica» (4 febbraio 2012), a margine di un’intervista a Sergio Benedetto, coordinatore della valutazione della qualità della ricerca italiana, si capisce che l’eccitazione è quella delle grandi scoperte:

“Una rivoluzione silenziosa sta per scuotere l’accademia italiana, minacciando di intaccare feudi consolidati, blasoni fasulli e inutili diplomifici. Per la prima volta i sessantamila docenti italiani – dai ricercatori agli ordinari – di novantacinque università pubbliche e private dovranno sottoporre a un giudizio esterno l’attività di ricerca svolta nell’arco di sei anni (dal 2004 al 2010)”.

Nientemeno che un’aspettativa palingenetica, dunque. Ma è tutto vero?

Come spesso accade, l’apparente semplicità nasconde in realtà un disegno complesso. Un grande spreco di retorica che copre un’enorme nuvola di fumo. Per fare chiarezza, è opportuno ricordare alcuni punti di questa «rivoluzione silenziosa»:

a) ci attende una competizione distruttiva: in un quadro di forte contrazione dei finanziamenti pubblici per l’Università, prevedibilmente compensati da un sensibile aumento delle tasse universitarie, i criteri di distribuzione delle risorse verranno determinati, di fatto, dalla competizione per ottenere risorse per il funzionamento ordinario e non risorse premiali aggiuntive. Un meccanismo del mors tua, vita mea che vedrà perdente l’intero sistema universitario;

b) una valutazione tutta politica: il “merito” dei singoli studiosi e delle Università verrà valutato dalla Valutazione della qualità della ricerca (Vqr), che fa capo all’Agenzia Nazionale della Valutazione della Ricerca (Anvur). L’Anvur è un organismo che si presenta come un’agenzia indipendente dal potere politico, ma ha ricevuto direttamente dal ministro Gelmini puntuali indicazioni sui criteri valutativi e sulle modalità operative da adottare. Inoltre, i suoi componenti sono stati scelti sulla base di ‘autocandidature’ di docenti, in assenza di parametri valutativi ufficiali e condivisi – legittimo quindi chiedersi sulla base di quale valutazione e con quali criteri siano stati scelti i Valutatori dell’eccellenza.

c) una rivoluzione sulla pelle degli studenti: l’obiettivo è redigere una classifica di atenei di serie A e serie B, istituendo una netta distinzione tra “università di ricerca” e “università di insegnamento” (la distinzione anglosassone tra teaching universities e research universities). Ma non è certo ‘tecnica’ la scelta di disegnare un sistema con pochi atenei di eccellenza, collocati presumibilmente nelle aree ricche e produttive del Paese, verso cui convogliare i giovani più brillanti e, ovviamente, benestanti. A tale sistema di ‘premi’ e ‘punizioni’ è, nei fatti, collegata la campagna per l’abolizione del valore legale del titolo di studio: la laurea di un mediocre studente di un’università di serie A (con ogni probabilità appartenente a una famiglia facoltosa) varrà più di quella di uno studente eccellente che non ha i mezzi per spostarsi ed è ‘costretto’ a laurearsi in un’università di serie B.

d) un metodo di valutazione discutibile: lo stesso metodo di valutazione della ricerca non tranquillizza: alcuni indicatori sono discutibili – ad esempio, l’utilizzo disinvolto dei criteri bibliometrici, la cui ‘tossicità’ e inconsistenza metodologica è ormai nota non solo agli scienziati, ma anche ai vertici politici internazionali. Altri sono contrari al buon senso (come ad esempio l’indicatore di risorse dedicate alla ricerca misurato senza tener conto della realtà economica del territorio in cui opera l’ateneo). Altri ancora volutamente canaglieschi, come l’adozione di criteri definiti dopo il periodo di valutazione, in modo da avere già i numeri per sapere chi premiare e chi no.

Il meccanismo, pertanto, non induce certo comportamenti virtuosi da parte di tutti in un’ottica di responsabilità e di coesione solidale del sistema universitario nazionale, ma scatena la competizione selvaggia dell’“ognuno per sé”. L’esatto contrario dell’idea di crescita culturale di un paese come processo collettivo, la negazione dell’idea di formazione come investimento sociale e la configurazione di un modello complessivo che, sotto le bandiere del “merito”, stabilizza e inasprisce gli strumenti di ricatto e di disuguaglianza che disciplinano la società.

Ribadiamo, dunque, la nostra contrarietà netta alla trasformazione dell’università in un luogo finalizzato alla competizione per l’accaparramento delle risorse, l’opportunità di sospendere temporaneamente la VQR con l’obiettivo di consentire l’avvio di un’autentica valutazione su base premiale e non punitiva, l’urgenza di una riflessione complessiva sullo stato dell’università, la fine degli attentati al valore legale del titolo di studio e al tetto alle tasse universitarie, il rifinanziamento del diritto allo studio, la sua integrazione e protezione.

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