[comunicato della Rete29Aprile del 3 giugno 2012]

C’era una volta la riforma dell’università, la “grande riforma”.

Su di essa è stato scritto tanto: che avrebbe abbattuto i baroni, promosso il merito, esaltato l’eccellenza. Veniva prevista un’abilitazione nazionale per scegliere tra gli aspiranti professori “the best and the brightest”, e le università sarebbero state costrette, secondo gli estensori, a scegliere solo chi avrebbe passato questo filtro.

Il filtro si è rivelato complicato, basato su criteri bibliometrici, indici di produttività scientifica, quantità di citazioni; un armamentario retorico più che scientifico, proposto dai tecno-burocrati dell’ANVUR, club esclusivo di apprendisti stregoni. Tutto in apparenza molto funzionale, asettico, come un ambulatorio.

Noi siamo sempre stati convinti invece che si trattasse di una falsa soluzione in una falsa riforma che manteneva il potere nelle mani dei baroni, e proponevamo pochi semplici provvedimenti per affrontare alcuni dei problemi del sistema: il ruolo unico della docenza, la responsabilità dei dipartimenti nelle chiamate, la fine dello sfruttamento dei precari negli Atenei. Dicevamo anche, e con maggior forza lo diciamo oggi, che i parametri bibliometrici sono fuorvianti e distorcono il modo di fare scienza e ricerca, e che tutto questo sogno di internazionalizzazione e rinnovamento si sarebbe rivelato un incubo vecchia maniera.

Avevamo ragione.

E la conferma arriva dal decreto legge in discussione al Consiglio dei Ministri, (nella versione in bozza che abbiamo potuto visionare; ci auguriamo che la versione definitiva sia molto diversa e che non si scelga la strada del decreto legge) con cui si vuole portare l’Università e la scuola “nel futuro”. Non analizzeremo tutto l’articolato per ovvi motivi di spazio, quindi non parleremo dell’introduzione degli “studenti dell’anno” (tipo “impiegato del mese” nei McDonald’s), dell’introduzione dell’obbligo della didattica per gli assegnisti di ricerca (che dovrebbero a questo punto, per coerenza, essere chiamati assegnisti di docenza), della possibilità di assumere per un solo anno i ricercatori a tempo determinato. Ci limiteremo solo a quelle piccole parti in cui si modifica il meccanismo di reclutamento dei docenti universitari, fedele specchio di un sistema e di un approccio che è duro a morire.

 

Già: i “concorsi”. Dopo un anno pare che ci si sia arresi di fronte alle critiche che provenivano da più parti: calcolare la produttività scientifica dei candidati con gli indicatori bibliometrici risultava troppo complicato e avrebbe esposto le procedure di abilitazione a una infinità di possibili ricorsi. Quindi niente più abilitazione nazionale, ma concorsi singoli utilizzando nella valutazione gli stessi criteri che dovevano sorreggere quella abilitazione: bibliometria, uso dell’H-Index, impact factor e quant’altro. Il tutto nel nome dell’efficienza e dell’imparzialità del “merito”.

Ora, bisogna essere chiari: non abbiamo nulla contro la valutazione, ma siamo contrari a un metodo messo in piedi in maniera autoreferenziale dall’ANVUR che non è un’agenzia “terza”, bensì è emanazione del governo e dei suoi orientamenti. Sarà l’ANVUR a determinare i criteri per la valutazione dei candidati in concorsi che tornano a essere “locali” e non più nazionali: due commissari della sede che bandisce il posto, due professori esterni e uno “straniero” proveniente da un Paese dell’area OCSE. E sarà ancora l’ANVUR a decidere se il candidato promosso risponderà ai criteri che lei stessa ha determinato, con buona pace di quella cosa che, una volta, si chiamava autonomia universitaria.

Si potrebbe a questo punto sentirsi tranquillizzati perché in ogni caso un controllo ci sarebbe, anche se ex-post, ma così non è: un criterio bibliometrico può essere facilmente “drogato” o “orientato” per far risultare idoneo tizio o caio e non si può considerare con favore il fatto che l’ANVUR abbia, alla fine, un vero e proprio potere di veto, giacché non solo fa le regole ma pretende di fare anche l’arbitro. Non tranquillizza neanche scrivere nel decreto legge che queste misure resteranno solo fino a tutto il 2014, perché temiamo che, come al solito, il provvisorio diventerà la regola.

Le abilitazioni erano una grande arma di distrazione di massa, frutto della visione barocca della riforma Gelmini, una trovata mediatica che avrebbe impegnato per anni plotoni di commissari nella valutazione di legioni di aspiranti docenti; con queste nuove misure torniamo invece praticamente indietro fino ai tempi della “libera docenza”: un vincitore, promosso da una commissione ma bocciato dall’ANVUR, in quale limbo si collocherà? E a quali livelli di abiezione si dovrà di nuovo piegare il giovane precario per sperare che la sua “sede” gli “bandisca” il suo “posto”? Dopo quattro – inutili – anni di blocco dei concorsi, con le università che si svuotano per i pensionamenti, che invecchiano e che si avvalgono per sopravvivere del lavoro nero e del precariato, si apre la strada all’arbitrio orientato dai criteri ANVUR.

In definitiva questa riforma, insieme ai tentativi di renderla attuabile mediante rappezzi di varia natura, naufraga, e con lei naufragano i soloni della “nuova università”, quelli che da quattro anni parlano di merito e di eccellenza. Loro sono le “eccellenze”, con il merito esclusivo di affondare nella melma l’istituzione universitaria.

Siamo, forse, ancora in tempo a cambiare ab imis “la grande riforma” e a dare voce a coloro i quali la Gelmini la voce l’ha tolta: studenti, precari, ricercatori, docenti di ogni ordine e grado, accomunati dalla buona volontà e dall’amore per la conoscenza e lo spirito critico, che in questi anni hanno elaborato un progetto per un’università pubblica, libera e aperta e che non si sono mai sottratti, né si sottrarranno, dal lavorare per proporre idee nuove e attuabili. E dunque ripetiamo: tanto per cominciare si combatte il potere baronale basato sui concorsi per fascia adottando il ruolo unico della docenza universitaria; si rende poco conveniente selezionare candidati non meritevoli facendo ricadere la responsabilità delle scelte sbagliate sui dipartimenti; si può eliminare lo sfruttamento dei precari negli Atenei istituendo un’unica figura pre-ruolo con compiti chiaramente regolamentati e prevedendo un percorso di ingresso nel ruolo unico sostenibile e stabile nel tempo.

Intanto gli artefici dello sfascio a cui assistiamo devono andarsene a casa. La Gelmini li ha preceduti, adesso tocca al direttivo ANVUR da lei nominato, che ha dato prova di pervicace incompetenza e incapacità. Ci aspettiamo anche che la CRUI, che prima ha applaudito la riforma Gelmini e ora sollecita la restaurazione, prenda atto del suo fallimento quale organo dirigente del sistema universitario. L’attacco al diritto allo studio, la valutazione “tecno-burocratica” di strutture e individui, la restaurazione interna del potere baronale (vedi la vicenda delle proroghe dei rettori), il tentativo ripetuto (quasi convulsivo) di scoraggiare i giovani dall’iscriversi all’università, lo stillicidio di riduzione dei fondi. Cos’altro vuole accettare o favorire la CRUI?

Ci aspettiamo, infine, che il parlamento prenda l’iniziativa di dichiarare inemendabile questa riforma mal nata e, dopo il fallimento dell’appalto della riforma a tecnocrati, baroni e industriali, apra in tempi brevissimi una consultazione generale con chi è pronto a proporre alternative perché nell’Università pubblica vive, lavora, crede e, specialmente, pensa.