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(in una versione più compatta il testo è pubblicato nel blog della Rete29Aprile sul Fatto Quotidiano)

Alla fine della legislatura può essere utile fare il punto su come i governi a guida PD si sono comportati sull’Università – prevalentemente lasciando sotto la sabbia trappole esplosive in grado di far saltare il sistema – e sui gravissimi provvedimenti inseriti sul tema della docenza nella legge di bilancio: ulteriori potenti cariche esplosive.

Ascoltare in un recentissimo incontro PD sull’università il senatore Verducci dire “in questa legislatura abbiamo fatto molto, e molto faremo ancora in futuro”, non suona come una rivendicazione di “avere fatto bene”, bensì sembra quasi – fuor d’ironia – una minaccia per chiunque lavori negli atenei. Verducci svolge da pochissimo il ruolo di coordinatore di quel partito sull’Università e la Ricerca e, al contrario di chi lo ha preceduto, appare persona competente e disponibile ad ascoltare i suoi colleghi universitari (Verducci è infatti, oltre che senatore, anche ricercatore universitario). Il problema è però che a fronte delle volonterose intenzioni di Verducci, il suo Partito non solo continua a mostrare apertamente di averli in uggia, gli universitari, al punto che persino un timidissimo emendamento sulla docenza è stato prima più volte annacquato dalle solite “manine” furbette e poi fatto ritirare all’ultimo momento; ma anche che, pervicacemente, continua a pettinare le bambole col vetriolo, senza pensare che la bambola ne potrebbe avere abbastanza di sperimentalismi che deprimono l’idea stessa di sapere pubblico e di ricerca aperta.

 

La strategia operativa del PD sembra essere esattamente la stessa in ogni campo, portata avanti con la decisione di un reparto di guastatori del genio: imitazioni sconclusionate delle peggiori politiche del centro-destra scritte con la mano “sinistra” guidata dai soliti potentati. Se nel campo del lavoro la consolidata impressione è che si sia costantemente andati a braccetto coi Marchionne e il suo variegato jet- set, maramaldeggiando sui lavoratori e le loro organizzazioni, per l’Università, mutatis mutandis, viene riproposto lo stesso schema: mentre si cerca sempre più di ridurre gli spazi di autonomia della ricerca e si trasforma il lavoro docente in una variante soffocata dalla burocrazia e dagli adempimenti barocchi, i “datori di lavoro” (come si sono auto-definiti recentemente i membri della CRUI per bocca del loro Presidente) ridacchiano soddisfatti mentre con i soliti scaldasedie ministeriali, scrivono le norme.

 

Un lampante esempio è l’ultima legge di bilancio: dentro ci sono provvedimenti che rafforzano ulteriormente quei potentati che, a favor di telecamere, la politica dice di voler limitare. I docenti chiedevano semplicemente di rimuovere un’intollerabile discriminazione sui tagli degli stipendi, avviata da Berlusconi-Tremonti e spensieratamente prorogata da tutti i governi successivi. Sotto il loro occhio incredulo la legge di Bilancio inventa invece il principio che le progressioni stipendiali, da diritto che erano un tempo, diventano un “premio” graziosamente concesso dall’establishment di ciascun ateneo, usando regolamenti diversi da sede a sede.

Non contenti di cotanta innovazione (proclamata ovviamente in nome della meritocrazia), con un carpiato con triplo avvolgimento che manco la Gelminisi si sarebbe sognata (poveretta, le mancava la fantasia creativa), si aggiunge che i premi (leggi “adeguamenti stipendiali”) non dati ai docenti passano direttamente nella cassa gestita dagli establishment. Il lettore potrebbe pensare di non aver capito; è proprio così: i rettori possono fare regolamenti degli scatti assai restrittivi in modo da utilizzare tali fondi loro stessi, a loro piacimento, senza più neppure la limitazione di una determinata finalizzazione per gli adeguamenti salariali non riconosciuti ai docenti: la Gelmini ne aveva mantenuta una blanda, ora i “democrats” la rimuovono. Si sa che il PD non è molto avvezzo a risolvere i conflitti di interesse, ma bisogna riconoscere che a generarne di nuovi è oggettivamente insuperabile.

Come immaginerete siamo rimasti esterrefatti quando la Ministra, con tutta la leggerezza del mondo, ci ha detto, in un recente incontro, che si trattava di un mero errore tecnico formale, di una banalità “già risolta” che sarebbe stata prontamente rimossa. Questo dopo che per più di un mese avevamo segnalato tali aspetti gravissimi mentre il PD, proprio pochi giorni prima del sorrisone della Ministra, aveva scientemente deciso di lasciarli esattamente così. Cara Ministra, forse neanche a lei i soliti scaldasedie al Ministero dicono le cose come stanno. Non è un errore (le parole non si scrivono da sole nelle leggi, sa?), ma una costante politica che il suo partito segue ormai da anni: mettere tutti contro tutti, con il falso pretesto del merito, per far sì che i potenti siano ancora più potenti, che chi lavora davvero sia perennemente sotto ricatto, possibilmente avendo alla gola il fango del precariato, rimanendo così massimamente ricattabile.

Si tratta di una vera e propria linea politica, seguita sistematicamente da chi ha pubblicamente detto che al posto del sistema universitario devono rimanere 4 o 5 “hub della ricerca”; magari mettendo al posto del pubblico fondazioni private, amici di amici cui regalare – anche se poi non ne hanno bisogno e non li usano: così è più divertente! – quanto sottratto agli stipendi dei docenti. Le sue parole, dette solo poche ore dopo l’occasione in cui avreste potuto correggere l’errore (se mai tale fosse stato dal vostro punto di vista), suonano come l’ennesima beffa. Un’altra presa in giro, come le foto in maglietta rossa e le accigliate intemerate contro il precariato, peste di questi tempi. Una peste che il PD sparge a piene mani, novello untore, per la quale ha enormi responsabilità e contro la quale non ha neppure intenzione di usare fondi già stanziati, ma bloccati.

In chiusura, allora, e in vista delle elezioni, sarà utile un rapidissimo promemoria solo su alcune delle varie mine disseminate dai governi PD nel sistema.

 

Le geniali cattedre Natta, inventate da altrettanto geniali sottosegretari PD alla presidenza del Consiglio, daranno al prossimo Presidente del Consiglio, naturalmente con la scusa del merito onnipresente, la libertà di nominare delle Commissioni speciali profumatamente pagate per farsi i “propri” professori universitari. Un colpo mortale al sistema: due fasce di docenza tutte nuove, con stipendi maggiorati, selezionate da Commissioni costosissime scelte personalmente dal Presidente del Consiglio. Che si tratti in futuro di Renzi, Di Maio, Salvini o Berlusconi cambia poco: si stabilisce un principio falsamente liberale che invece è profondamente corruttivo per un sistema già sottoposto da anni a tensioni fortissime. Sin dall’inizio vi abbiamo chiesto di trasformare questo obbrobrio – per il quale sono stati stanziati parecchi milioni di euro di soldi pubblici: 75 milioni di euro l’anno – in reclutamento di quei giovani che agli establishment fa comodo mantenere nel precariato ma, naturalmente, senza ricevere il minimo ascolto. Volete davvero fare per una volta “la cosa giusta”? Bastano poche parole nella legge di bilancio per usare, dal 2018 in poi, i soldi accantonati per le stupide cattedre Natta in fondi per l’assunzione di una porzione del grande mare di attuali precari, che state spingendo con forza all’estero. Porzione che, seppure sarà piccola, rappresenterà un segnale “di sinistra” (oddio, ci è scappato…) a favore di un’università pubblica, libera e aperta e non popolata da quarantenni trattati come bambini minorati.

 

Altro esempio: I governi PD sono quelli che più hanno rafforzato il neopotere anvuriano. Sono lontani i tempi in cui un Bersani segretario tuonava contro una “riforma” che “noi, ragassi, rifaremo da capo”: invece no: il PD ha accompagnato per la mano, come una bimbetta titubante e pasticciona, la neonata Agenzia di valutazione dell’Università e della ricerca, che a forza di tentativi, di pasticciate figure, di approssimazioni, alla fine ha conquistato il lecca lecca: si è installata nel sistema ed è diventata la “camera oscura” dell’Università italiana. Quella che fabbrica i numeretti dietro ai quali passano anche le solite manovre; quella che infligge – come sanno bene tutti gli universitari – carichi esorbitanti di inutili scartoffie burocratiche (paperwork li chiamano gli americani, non sia mai che gli anglofoni pasticcioni vogliano adottare anche questo anglismo) nascoste dietro arcani e sempre nuovi acronimi. Ebbene, neanche l’ANVUR, con il lecca lecca di traverso, aveva mai osato arrogarsi il diritto di valutare e mettere in fila i singoli individui con i suoi algoritmi e le sue formule, dichiarando (vedi FAQ VQR) che ciò sarebbe stato impossibile e sbagliato. Ma ecco che il PD, zio affettuoso, le viene in soccorso, e non solo le compra i lecca lecca ma si inventa un nuovo gioco: con la scusa di assegnare mancette domenicali per la ricerca (finanziata pochissimo e malissimo), inventa un sistema per testare il nuovo alambicco anvuriano che tutti misura (tranne gli ordinari: mica fessi!): l’indicatore FFABR, che verrà usato – in prima battuta, poi si vedrà – per far mettere gli uni contro gli altri in corsa per un magro gruzzoletto di un migliaio di euro. Complimenti, anche per la definizione aprioristica di percentuali di meritevoli in assenza di una qualunque indicazione di criteri per giudicare cosa sia un lavoro ben fatto.

 

Identico sistema, ma su una scala diversa, è quello giustamente definito da ROARS dei “ludi dipartimentali”: in questo caso il tutti contro tutti si sposta a livello di Dipartimenti, dal lecca lecca alla fabbrica di caramelle, generando un meccanismo perverso. A chi è considerato un po’ più avanti si prova a dare ciò che dovrebbe essere normale – un minimo di finanziamento e capacità assunzionale –, sgretolando tutti gli altri e facendo apparire che sia per loro demerito: non sei dipartimento eccellente? amen, una prece e avanti un altro. In questo modo si incentivano soltanto potentati a macchia di leopardo – che sguazzano nello stato di eccezione – se ne creano di nuovi, si foraggia chi già è forte e si abbandona il principio della distribuzione delle risorse pubbliche a favore del territorio, affossando un sistema che, tra i suoi elementi di positività, aveva una qualità diffusa della quale tutti, da Bolzano a Messina, potevano sperare di beneficiare.

 

Si vuole migliorare il sistema o distruggerlo, “asfaltando” (come qualcuno ama dire) la strada per i privati che verranno e per la gioia di Confindustria? Caro Partito Democratico, se questa domanda vi pare retorica, e se vi sembra che chiunque la legga conosca già la risposta, dovreste iniziare a farvi delle domande e ad ascoltare (davvero!) chi in Università ci lavora e studia, non solo chi pensa di comandarla come fosse cosa sua e liscia il pelo al governo di turno in previsione dei suoi augurabili incarichi futuri.