(di Alessandro Arienzo; pubblicato il 2 dicembre 2013 su www.roars.it)

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È accaduto, anche se in un Paese civile non sarebbe mai dovuto accadere. Immediatamente dopo la pubblicazione su questo blog [ndr: roars.it] dell’articolo “Cervelli in standby. La mutazione genetica del ricercatore nell’era delle telematiche”, a firma mia e della collega Alida Clementeil CdA di Unicusano, ritenendo l’articolo lesivo dell’immagine dell’Ateneo, ha sanzionato Alida con un gravissimo provvedimento: la sospensione per un mese dal lavoro e dalla retribuzione.

La sanzione è, a mio parere, ingiustificata e credo che leggendo l’articolo sia agevole concordare con me. Mi limito a ricordare che la prima parte dell’articolo presentava alcuni dati sugli atenei telematici in Italia e la seconda evidenziava come il carattere prevalentemente commerciale di tali strutture, istituzionalmente votate alla didattica, entri facilmente in contrasto con la natura della docenza universitaria, che implica uno stretto rapporto fra didattica e ricerca.

Neppure intendo discutere della legittimità e correttezza formale e sostanziale dell’operato degli organi di amministrazione dell’Unicusano, su cui pure ci sarebbe moltissimo da dire, a partire dal fatto che il parere del collegio di disciplina (previsto come “vincolante” dalla normativa vigente) che richiedeva una mera nota di censura è stato disatteso dal CdA che ha voluto e imposto una sanzione “esemplare”.

Mi interessa invece esprimere, alla luce di quanto è successo, qualche riflessione sulla normativa della legge 240/2010 (la legge Gelmini) in materia di procedimenti disciplinari e ritornare ancora sulla situazione dei diritti e dei doveri dei docenti nelle università telematiche.

Parto dal tema delle commissioni disciplinari previste dall’art. 10 della 240, dedicato appunto alla “competenza disciplinare” delle Università. La legge, innovando, ha infatti attribuito ai singoli atenei la competenza in materia disciplinare (in precedenza, per provvedimenti più gravi della censura, esclusivamente riservata al Consiglio Universitario Nazionale) e ha previsto a tal fine l’istituzione di collegi disciplinari in ogni ateneo. Secondo tale legge il Rettore avvia il procedimento, il collegio disciplinare, sentita la proposta del Rettore, esamina il caso ed esprime un parere vincolante, il CdA infligge l’eventuale sanzione. Il procedimento, tutto interno all’Ateneo, comporta vistose aporie. In primo luogo non prevede una netta separazione di competenze fra chi avvia il procedimento, chi interviene nella sua fase istruttoria e decisionale e chi infligge la sanzione. In secondo luogo appaiono del tutto inadeguate le garanzie procedurali e sostanziali a tutela del docente sottoposto al procedimento. In terzo luogo l’attribuzione ai singoli atenei di un’ampia autonomia in questi procedimenti rende possibile che diversi collegi disciplinari adottino criteri anche molto diversi d’intervento e di sanzione.

Soprattutto negli atenei più piccoli il collegio di disciplina rischia di diventare uno strumento di controllo e di governo (per non dire di repressione di eventuali dissensi), nelle mani del Rettore e del CdA dell’Ateneo (e, nelle strutture private, della proprietà). In ogni caso alla sanzione il singolo può opporsi solo con un oneroso ricorso al TAR, cosa che accentua la funzione intimidatrice dello spettro (magari apertamente evocato) di un procedimento disciplinare.

Negli atenei non statali questo rischio si acuisce. Infatti, la dirigenza di questi atenei è non solo, e forse non tanto, quella rappresentata dal Rettore e dal CdA, ma quella costituita dalla proprietà, i cui interessi economici possono non collimare con la natura accademica dell’istituzione.

Prendiamo il caso dell’Unicusano. L’Università è promossa da un’impresa: la Società delle Scienze Umane srl. Questa impresa, secondo lo Statuto dell’Ateneo, designa 8 membri del Consiglio di Amministrazione, il Presidente, il Vice-Presidente e l’Amministratore Delegato dell’Università, per un totale di 11 membri su 13. Il Consiglio di Amministrazione designa poi un professore di ruolo come ulteriore membro. Anche il Rettore non è eletto dalle componenti dell’Università, ma è nominato dal Consiglio di Amministrazione. Infine, il Senato Accademico, previsto dallo statuto, non è mai stato costituito (a distanza di molti anni dall’istituzione dell’Università, avvenuta nel 2006) e in sua vece opera un Comitato Tecnico Organizzativo, i cui componenti sono tutti nominati dal CdA. Per quanto singolare, ciò è formalmente legittimo, poiché agli atenei non statali è lasciata la facoltà di dotarsi di una propria governance interna, differente da quella degli atenei statali. Nondimeno emerge lo sbilanciamento di un’amministrazione siffatta sul versante proprietario. Ciò conferma quanto individuava l’articolo incriminato: “l’insanabile contraddizione tra l’interesse dell’assetto proprietario dell’Università (quello di trarre un profitto dalla didattica universitaria on line) con la natura complessa della docenza universitaria, che è tale se è in grado di offrire, al meglio possibile, il senso della relazione stretta tra didattica e ricerca”.

Ne costituisce una prova significativa il regolamento didattico dell’Unicusano, che pretende dai ricercatori una presenza in sede per ben 120 ore al mese (6 ore al giorno per 5 giorni alla settimana), laddove lo stato giuridico dei ricercatori universitari prevede un impegno didattico massimo di 350 ore l’anno, per non pregiudicare il loro impegno primario, che dovrebbe essere, secondo la legge e il buon senso, la ricerca scientifica. Ma, come avevamo scritto, in atenei come quello il core business è la didattica. Ciò non agevola di certo le necessità della ricerca, specialmente là dove il corpo docente sia numericamente molto esiguo (all’Unicusano vi sono solo 2 professori ordinari e 3 professori associati a fronte di circa 25 ricercatori a tempo indeterminato e un numero quasi pari di ricercatori a tempo determinato) a fronte di una massiccia e crescente offerta didattica (11 corsi di laurea in 6 aree diverse e moltissimi master). In un simile contesto, si finisce per chiedere ai ricercatori una totale dedizione all’attività didattica, nelle sue più svariate articolazioni, snaturando la specificità dei ricercatori stessi e con essa gli interessi di ricerca e le aspirazioni. L’Unicusano è giunta ad emettere dei reiterati “richiami” ai ricercatori che non si siano attenuti alla sua discutibile pretesa (il regolamento è stato impugnato dinanzi al TAR e pende il giudizio).

In definitiva, dietro la sanzione inflitta ad Alida dal CdA di Unicusano, emerge un insieme di questioni importanti che non si può fingere d’ignorare e che non sono esclusivamente riducibili ai rapporti interni all’Ateneo. La missione dell’Università prevede l’interconnessione di didattica e ricerca, con tutte le dovute autonomie, previste dalla legge. Peraltro, le autorizzazioni ministeriali a rilasciare certificati di laurea e diplomi di studio legalmente riconosciuti sono fondate sul pieno rispetto delle norme vigenti comprese quelle relative allo stato giuridico della docenza universitaria.

Credo sia una osservazione frutto di buon senso ritenere che la credibilità e l’immagine di una istituzione universitaria dipendono dalla sua oggettiva condizione, e non certo dagli articoli che la descrivono: siano quegli articoli scandalistici che proprio l’articolo mio e di Alida tendevano a ridimensionare (si legga l’incipit dell’articolo); siano invece analisi di più articolate che rappresentano momenti ineludibili di auto-riflessione e auto-valutazione.

È bene tenere presente, ad ogni modo, che quanto è accaduto ad Alida, data la normativa sulle competenze disciplinari, potrebbe ripetersi anche in altri atenei, non solo privati e non solo telematici, e ciò costituirebbe una pericolosa tendenza a ridurre gli spazi di libera espressione, pur garantiti dalla stessa Costituzione (art. 21), in nome di una malintesa governabilità. Anche per questo l’uso delle sanzioni disciplinari contro chi esprime legittime opinioni e non si allinea alle scelte di governo degli atenei va combattuto con la massima determinazione. La normativa attuale relativa ai collegi di disciplina – come sottolineato dal CUN già in una mozione del 2 dicembre 2009 e ribadito con forza dalla più ampia parte del mondo universitario in questi anni – è un indice gravissimo della condizione di crisi delle istituzioni universitarie e di limitazione progressiva degli spazi di autonomia e libertà nei nostri atenei. Un radicale cambiamento delle norme sui Collegi di disciplina deve essere tra le priorità di un Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca che voglia essere effettivamente garante di democrazia.

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Riportiamo di seguito il contenuto di una email (firmata) che ci è giunta in supporto di questa petizione, della cui autrice per evidenti motivi preserviamo l’identità:
“Tra il riso e il pianto ho letto articolo e reazioni a cascata. La gioia di vedere che qualcuno ha il coraggio di parlare di una situazione che è ancor peggiore di quella descritta. L’amarezza di sapere che firmare la petizione per me comporterebbe ritorsioni pesanti (guardate voi stessi quanti hanno sottoscritto tra coloro che afferiscono alle università telematiche!!) Il clima è quello della denuncia tra colleghi pur di ottenere benefici a scapito degli altri. In sostanza queste righe sono per ringraziarvi di aver firmato “anche per me” e per chiedervi di sottolineare a tutti che la mancanza di firme da parte dei dipendenti delle telematiche è legata alle conseguenze che ciò comporterebbe.”